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Commenti sulle Gare
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Le società civili fanno proselitismo, creano i primi meccanismi di fidelizzazione degli atleti e, nonostante gli sforzi enormi, li portano sino alla soglia del sistema di pseudo-professionismo di cui è dotato questo sport (i gruppi sportivi militari) e costituiscono il collante dell’intero sistema.


Di fatto l’unico modello che è andato di moda da sempre, peraltro invocato a gran voce dalle stesse società (memorabili alcune uscite alle Assemblee elettive), è un perdurante assistenzialismo: le società civili italiane non sembrano poter creare circoli virtuosi, almeno a livello nazionale, se non attraverso aiuti diretti (rimborsi chilometrici, premi a pseudo società storiche, premi vari a piazzamento...), o indiretti (come l’attribuzione di campionati italiani creati in maniera isterica negli ultimi anni in tutte le modalità possibili ed immaginabili) dalla Fidal o da vari benefattori che hanno voglia di buttare a fondo perduto le proprie risorse, ma solo spinti da un misto tra filantropia, abbattimento delle imposte della propria attività e amicizie insistenti.
E’ un sistema destinato a fallire, e che è evidente come si stia sempre più contraendo: le crisi societarie sono cicliche, la mortalità dei club più blasonati è altissima, e basta che uno sponsor tolga la mano che cade l’intero castello da un giorno all’altro. Sopravvivono solo le piccole realtà, che riescono a far fronte alle spese con una gestione familiare e condivisa di tutti gli aspetti. Peraltro anche queste realtà ci sembrano in affanno, laddove non si è mai cercato di creare classi dirigenti giovani per i necessari ricambi generazionali: quando un presidente anziano se ne va (per mille motivi, non ultima la vecchiaia), la realtà si affloscia su se stessa, e poi scompare senza eredità. Di chi è la colpa?
Cosa si può fare per rinvigorire il mondo societario della pista italiana ?

Marchiamo un fatto scontato e lapalissiano: tutti i migliori atleti italiani che praticano l’atletica, con rarissime eccezioni, appartengono ai gruppi sportivi militari. E’ questo, se da una parte è l’unico meccanismo per creare un sorta di professionismo in questo sport, è anche un enorme vulnus sia per le realtà civili che volessero investire in questo sport, che per i potenziali sponsor, naturalmente disincentivati a buttare risorse dall’impossibilità e dai paletti che pone la sponsorizzazione di una società militare.

Altrimenti detto: l’atletica societaria civile italiana fa attività senza poter utilizzare campioni di questo sport o solo con campioncini molto giovani pronti sulla rampa di lancio per essere poi sparati nei gruppi sportivi militari.

Capite bene che fare sport di squadra ad alto livello senza poter sfruttare i campioni è un’impresa titanica, non varrebbe nemmeno la pena scriverlo tanto appare ovvio. Questo è il contesto in cui si trovano a navigare le società civili maggiorenti con ambizioni extra-provinciali. L’assistenzialismo e la navigazione a vista appaiono davvero l’unico meccanismo per farle sopravvivere da questo punto di vista.

Come ci si può muovere in un contesto dove non c’è mercato, dove non esistono investitori attratti da questo prodotto che è l’atletica italiana (che si limita, in rari casi, a pochissimi atleti e solo a titolo individuale): questo è il vero tema che ci sembra il più importante da affrontare a livello centrale.

Pare invece che sia l’unico che non venga sfiorato per evitare di pestare le falangi a questa o quella società che ha un determinato peso elettorale, come una sorta di campo minato nel quale nessuno vuol metterci mano. Il mondo della strada è sempre oggetto di idee e di rivisitazioni, più o meno vincenti o più o meno innovative (ma almeno ci sono!), mentre tutto tace nel mondo della pista, ovvero in quel settore che dovrebbe essere al primo punto di qualunque politica legata all’atletica e alla sua vendibilità. L’atletica italiana su pista è obsoleta gestionalmente, non prevede innovazioni, non ci sono idee, proposte.
IL grido di allarme di storiche società di una possibile chiusura in assenza di un main-sponsor che possa coprirne le spese, non è una novità nella storia dell’atletica italiana anzi. E’ una storia già vista e che si è ripetuta ciclicamente con molte società di alto lignaggio.

Le società sopravvivono quindi grazie al profondo radicamento sul territorio, come Rieti, Vicenza, Lecco, solo per fare qualche nome. Appena si cerca di spiccare il volo, ecco che arriva il peso esorbitante di un’impresa senza reti di protezione, perché non c’è nulla di più aleatorio che vivere anno per anno sulle spalle di un main sponsor che garantisce la gestibilità senza profitto per la società stessa. Ma non c’è nessuna progettualità in questo: è una corsa con un timer che ad un certo punto dirà basta.

Ora, gli scenari sembrano foschi, ma in realtà ci potrebbero essere strade virtuose da percorrere per le società civili italiane. La prima è quella che le società maggiorenti, così come approvato nel nuovo statuto, si associassero in una Lega e producessero un loro rappresentante in seno al consiglio nazionale, senza dover continuare a tirar giacchette di questo o quel consigliere nazionale per ottenere privilegi validi solo per il proprio orticello. E’ proprio la politica dell’orticello che ha generato gli squilibri attuali.
Una Lega delle Società Civili (all’interno della quale si dovrebbe entrare solo a determinate condizioni) avrebbe finalmente il potere, come organo, di decidere prima e di imporre poi, come strutturarsi al meglio, come vendere un prodotto come un campionato di società che fosse godibile, (o meglio, “vendibile”) come porre all’attenzione della struttura politica le criticità del sistema, come diminuire l’isteria di campionati italiani e manifestazioni che si riverberano con le relative spese su ogni team; la creazione insomma di un soggetto che aiutasse anche gestionalmente le singole realtà ad avere un filosofia più di mercato e meno assistenzializzata, promuovendo e rintracciando per chi ne fa parte, opportunità, risorse, aggiornamenti. Oggi ognuno va avanti da solo navigando a vista.

Insomma, ci sembra il momento che chi voglia uscire dai voli pindarici di gestire una società vivendo nella speranza dei regali da parti di sponsor filantropici (o sui corsi), si riunisca e si organizzi così come fanno tutti i più grandi sport. Non si possono riunire gli atleti, ma possono farlo le società. E si lascerebbe così libera la federazione di concentrarsi sull’alto livello (cosa che peraltro già fa autonomamente, nonostante gli imperativi e le invocazioni che le arrivano dal basso) recependo le spinte sinergiche (e non confuse e clientelari) del mondo delle società civili.

Magari non è la soluzione finale, ma di certo sarebbe il primo passo verso un salvataggio del sistema.
a in assenza di un main-sponsor che possa coprirne le spese, non è una novità nella storia dell’atletica italiana anzi. E’ una storia già vista e che si è ripetuta ciclicamente con molte società di alto lignaggio.

Le società sopravvivono quindi grazie al profondo radicamento sul territorio, come Rieti, Vicenza, Lecco, solo per fare qualche nome. Appena si cerca di spiccare il volo, ecco che arriva il peso esorbitante di un’impresa senza reti di protezione, perché non c’è nulla di più aleatorio che vivere anno per anno sulle spalle di un main sponsor che garantisce la gestibilità senza profitto per la società stessa. Ma non c’è nessuna progettualità in questo: è una corsa con un timer che ad un certo punto dirà basta.

Ora, gli scenari sembrano foschi, ma in realtà ci potrebbero essere strade virtuose da percorrere per le società civili italiane. La prima è quella che le società maggiorenti, così come approvato nel nuovo statuto, si associassero in una Lega e producessero un loro rappresentante in seno al consiglio nazionale, senza dover continuare a tirar giacchette di questo o quel consigliere nazionale per ottenere privilegi validi solo per il proprio orticello. E’ proprio la politica dell’orticello che ha generato gli squilibri attuali.
Una Lega delle Società Civili (all’interno della quale si dovrebbe entrare solo a determinate condizioni) avrebbe finalmente il potere, come organo, di decidere prima e di imporre poi, come strutturarsi al meglio, come vendere un prodotto come un campionato di società che fosse godibile, (o meglio, “vendibile”) come porre all’attenzione della struttura politica le criticità del sistema, come diminuire l’isteria di campionati italiani e manifestazioni che si riverberano con le relative spese su ogni team; la creazione insomma di un soggetto che aiutasse anche gestionalmente le singole realtà ad avere un filosofia più di mercato e meno assistenzializzata, promuovendo e rintracciando per chi ne fa parte, opportunità, risorse, aggiornamenti. Oggi ognuno va avanti da solo navigando a vista.

Insomma, ci sembra il momento che chi voglia uscire dai voli pindarici di gestire una società vivendo nella speranza dei regali da parti di sponsor filantropici (o sui corsi), si riunisca e si organizzi così come fanno tutti i più grandi sport. Non si possono riunire gli atleti, ma possono farlo le società. E si lascerebbe così libera la federazione di concentrarsi sull’alto livello (cosa che peraltro già fa autonomamente, nonostante gli imperativi e le invocazioni che le arrivano dal basso) recependo le spinte sinergiche (e non confuse e clientelari) del mondo delle società civili.

Magari non è la soluzione finale, ma di certo sarebbe il primo passo verso un salvataggio del sistema.

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