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Commenti sulle Gare
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Domenica. Vissuta, passata, archiviata. Avrei dovuto, potuto, forse, ma, se, però. La pioggia, il vento, il traffico, le suore sul percorso e i sampietrini. No, sono troppo onesto per non ammettere di aver cannato clamorosamente l’appuntamento più importante, quindi non cercherò scuse. Roma poteva essere tomba o mausoleo, ha scelto di essere fossa comune, ricacciandomi indietro di sei minuti rispetto al mio personale sulla distanza e di quasi venti dal mio personale sulla speranza.

Esattamente come un anno fa la mia vescica ha deciso di far le bizze, comunicandomi menzognera di voler essere svuotata, reiteratamente. E ad ogni sosta non usciva niente, mentre il fiume umano mi superava arrancante. Io lì osservavo geloso del loro incedere, da dietro piante, muri, cassonetti, pregando che dal mio pistolino uscisse quella pipì che tanto appesantiva la vescica e la mia corsa, ma senza successo.

Fino al ventiquattresimo ho seguito le chiappe del coach, come quel pittbull che ha cercato di azzannarlo durante la corsa.

 

Le ho viste andar via e dal ventiquattresimo al trentesimo ho lottato contro l’evidenza ed il calo di prestazione. Ho fatto quattro inutili soste per non-pisciare. Poi al trentaduesimo, spremendomi le budella, ho ottenuto lo sgorgare di una stilla di roba arancione.

“Minchia, se fosse rossa correrei dai dottori. Fortuna che è solo arancione, c’è una bella differenza. Correrò fino ai Fori Imperiali, ma senza fretta…” ho pensato mentre mi ricomponevo. Ed Erminio, correndo nella fiumana che mi abbandonava, mi osservava perplesso.

 

Un’anno fa non accettai questa situazione, il responso pratico di quella che poi ho scoperto essere una banalissima disidratazione (la colorazione della pipì era dovuta ai sali minerali solitamente presenti nelle urine, accumulatisi nella mia vescica prematuramente inaridita) forzando gambe e cuore fino al traguardo, in una via crucis muscolare e morale.

Domenica, pavidamente, ho tirato i remi in barca, pensando a salvare i miei muscoli per riprovarci a Cagliari. Inutile uccidersi di fatica, se ormai il tuo obbiettivo fugge via e non riesci ad inseguirlo. Ho affrontato il muro psicologico del fallimento, ho accettato il suo responso. E così ho perso.

 

mario pazzona corrinuoro 2013

E così ho vinto, in quello stesso istante, perchè ho ridato dignità alla mia Maratona. Ho capito che non dovevo più combattere la corrente ma seguirne il flusso, abbandonandomi tapascioso fra le braccia della folla fino a correre sorridente e felice (proprio come volevano i R.E.M.), cogliendo finalmente quella festa della quale, nelle altre maratone disputate, non ero mai riuscito a godere appieno.

A facilitare il viaggio un ragazzo della Podistica Sassari, abbattuto da problemi di stomaco e crampi, con il quale ho condiviso gli ultimi splendidi chilometri nel cuore di Roma. Abbiamo chiacchierato, riso, incitato gli altri podisti in difficoltà, invitato la folla a dare il suo supporto.

 

Ho visto piazza Navona, via del Corso, piazza del Popolo, piazza di Spagna – il meglio di Roma, insomma – da una posizione privilegiata.

E l’ho fatto con gioia, perchè avevo un posto in prima fila all’interno del più grande spettacolo che l’uomo possa atleticamente concepire. Gente devastata dalla fatica che continuava a correre, atleti massacrati dai crampi che non mollavano, vecchietti pimpanti che scattavano nel momento peggiore, quando i giovani mollavano. Il trionfo delle motivazioni.

 

Ho visto tutta quell’umanità sbattere contro il terribile muro, arrancare, aggirarlo, abbatterlo, scavalcarlo. Io e il mio compagno di viaggio invece, animati dal solo obbiettivo di non arrivare oltre le tre ore e trenta, siam passati in sordina dalla porta di servizio, senza affrontarlo.

Avevo promesso che avrei sorriso, anche nei momenti di maggior sconforto. Sono stato di parola. L’obbiettivo prestazionale è stato clamorosamente mancato, in compenso ho centrato l’obbiettivo emozionale, finalmente.

Domenica. Vissuta, passata, archiviata. E goduta.

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